Nasce nel 1798 a Recanati, nelle Marche, regione dello Stato Pontificio. Suo padre, il conte Monaldo, è legato al regime assolutistico, in famiglia è autoritario e severo tanto quanto la madre, la marchesa Adelaide Antici, bigotta, che si mostra con i figli esigente ed oppressiva. L'infanzia del poeta è, perciò, molto infelice, priva di affetto e di giochi.
A nove anni la sua educazione è affidata ad un precettore. Si dedica agli studi con straordinaria passione rivelando doti prodigiose. Ben presto è in grado di continuare da solo la propria formazione culturale usando la ricca biblioteca del padre: impara il latino, il greco, l'ebraico, l'inglese e lo spagnolo. Ancora giovanissimo scrive numerose opere di erudizione che testimoniano la vastità delle
sue conoscenze. L'impegno nello studio è tale da compromettere la sua già debole salute: la scoliosi si aggrava rendendolo deforme, e una malattia agli occhi gli impedì per qualche tempo la lettura.
A nove anni la sua educazione è affidata ad un precettore. Si dedica agli studi con straordinaria passione rivelando doti prodigiose. Ben presto è in grado di continuare da solo la propria formazione culturale usando la ricca biblioteca del padre: impara il latino, il greco, l'ebraico, l'inglese e lo spagnolo. Ancora giovanissimo scrive numerose opere di erudizione che testimoniano la vastità delle
sue conoscenze. L'impegno nello studio è tale da compromettere la sua già debole salute: la scoliosi si aggrava rendendolo deforme, e una malattia agli occhi gli impedì per qualche tempo la lettura.
I Canti (pubblicati nel 1831, 1835 e 1845) comprendono tutta la produzione lirica del poeta: le canzoni civili e filosofiche, gli idilli, le poesie del Ciclo di Aspasia e La ginestra, composte negli ultimi anni. Le operette morali sono 24 prose di argomento filosofico, per lo più in forma di dialogo; vi compaiono personaggi storici, mitologici, simbolici. I temi principali sono: l’irrilevanza dell’uomo nella storia dell’universo, l’indifferenza della natura nei confronti degli esseri viventi, la noia, il suicidio.
In una fase della sua vita, Leopardi vede invece la natura come crudele e indifferente alla sorte delle sue creature ed alle loro sofferenze. La colpa dell’infelicità non è più, dunque, dell’uomo, ma della natura malvagia; l’infelicità non è più legata ad una condizione storica e relativa dell’uomo, ma ad una condizione assoluta e immutabile ( pessimismo cosmico ). L’infelicità, che prima era concepita come assenza di piacere, è ora dovuta ai mali esterni, ai quali nessuno può sfuggire: malattie, cataclismi, vecchiaia, morte.
è stata inserita una canzone presente nello zibaldone molto toccante che parla del suo amore verso una donna più grande di lui, ma questo amore non può e non potrà mai essere ricambiato.
In questo canto esso esprime tutto il suo dolore e i sentimenti che prova per questa donna.
IL PRIMO AMORE |
Tornami a mente il dì che la battaglia
D'amor sentii la prima volta, e dissi: Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia! Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi, Io mirava colei ch'a questo core Primiera il varco ed innocente aprissi. Ahi come mal mi governasti, amore! Perchè seco dovea sì dolce affetto Recar tanto desio, tanto dolore? E non sereno, e non intero e schietto, Anzi pien di travaglio e di lamento Al cor mi discendea tanto diletto? Dimmi, tenero core, or che spavento, Che angoscia era la tua fra quel pensiero Presso al qual t'era noia ogni contento? Quel pensier che nel dì, che lusinghiero Ti si offeriva nella notte, quando Tutto queto parea nell'emisfero: Tu inquieto, e felice e miserando, M'affaticavi in su le piume il fianco, Ad ogni or fortemente palpitando. E dove io tristo ed affannato e stanco Gli occhi al sonno chiudea, come per febre Rotto e deliro il sonno venia manco. Oh come viva in mezzo alle tenebre Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi La contemplavan sotto alle palpebre! Oh come soavissimi diffusi Moti per l'ossa mi serpeano, oh come Mille nell'alma instabili, confusi Pensieri si volgean! qual tra le chiome D'antica selva zefiro scorrendo, Un lungo, incerto mormorar ne prome. E mentre io taccio, e mentre io non contendo, Che dicevi, o mio cor, che si partia Quella per che penando ivi e battendo? Il cuocer non più tosto io mi sentia Della vampa d' amor, che il venticello Che l'aleggiava, volossene via. Senza sonno io giacea sul dì novello, E i destrier che dovean farmi deserto, Battean la zampa sotto al patrio ostello. Ed io timido e cheto ed inesperto, Ver lo balcone al buio protendea L'orecchio avido e l'occhio indarno aperto, La voce ad ascoltar, se ne dovea Di quelle labbra uscir, ch'ultima fosse; La voce, ch'altro il cielo, ahi, mi togliea. Quante volte plebea voce percosse Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese, E il core in forse a palpitar si mosse! E poi che finalmente mi discese La cara voce al core, e de' cavai E delle rote il romorio s'intese; Orbo rimaso allor, mi rannicchiai Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi, Strinsi il cor con la mano, e sospirai. Poscia traendo i tremuli ginocchi Stupidamente per la muta stanza, Ch'altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi? Amarissima allor la ricordanza Locommisi nel petto, e mi serrava Ad ogni voce il core, a ogni sembianza. E lunga doglia il sen mi ricercava, Com'è quando a distesa Olimpo piove Malinconicamente e i campi lava. Ned io ti conoscea, garzon di nove E nove Soli, in questo a pianger nato Quando facevi, amor, le prime prove. Quando in ispregio ogni piacer, nè grato M'era degli astri il riso, o dell'aurora Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato. Anche di gloria amor taceami allora Nel petto, cui scaldar tanto solea, Che di beltade amor vi fea dimora. Nè gli occhi ai noti studi io rivolgea, E quelli m'apparian vani per cui Vano ogni altro desir creduto avea. Deh come mai da me sì vario fui, E tanto amor mi tolse un altro amore? Deh quanto, in verità, vani siam nui! Solo il mio cor piaceami, e col mio core In un perenne ragionar sepolto, Alla guardia seder del mio dolore. E l'occhio a terra chino o in se raccolto, Di riscontrarsi fuggitivo e vago Nè in leggiadro soffria nè in turpe volto: Che la illibata, la candida imago Turbare egli temea pinta nel seno, Come all'aure si turba onda di lago. E quel di non aver goduto appieno Pentimento, che l'anima ci grava, E il piacer che passò cangia in veleno, Per li fuggiti dì mi stimolava Tuttora il sen: che la vergogna il duro Suo morso in questo cor già non oprava. Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro Che voglia non m'entrò bassa nel petto, Ch'arsi di foco intaminato e puro. Vive quel foco ancor, vive l'affetto, Spira nel pensier mio la bella imago, Da cui, se non celeste, altro diletto Giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.
Valeria Cantoni
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